Mansuetudine e mitezza
Per quel che riguarda i due nomi astratti che designano le rispettive virtù, ‘mansuetudine‘ e ‘mitezza‘, direi (ma è più un’impressione che una convinzione, perché non sto facendo un discorso rigoroso) che la mitezza vada più in profondità.
La mansuetudine sta più alla superficie. O meglio, la mitezza è attiva, la mansuetudine passiva. Ancora: la mansuetudine è più una virtù individuale, la mitezza più una virtù sociale. […]
La mansuetudine è una disposizione d’animo dell’individuo, che può essere apprezzata come virtù indipendente dal rapporto con gli altri. Il mansueto è l’uomo calmo, tranquillo che non si adonta per un nonnulla, che vive e lascia vivere, e non reagisce alla cattiveria gratuita, per consapevole accettazione del male quotidiano, non per debolezza.
La mitezza è invece una disposizione d’animo che rifulge solo alla presenza dell’altro: il mite è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé.
In un filosofo torinese, Carlo Mazzantini, appartenente a una generazione precedente alla mia, poco noto ormai, e che io ebbi caro per la sua profonda vocazione filosofica nonostante il divario nell’intendere il mestiere del filosofo, ho trovato un elogio e una definizione della mitezza che mi ha colpito: la mitezza, egli diceva, è l’unica suprema ‘potenza’ (badate, la parola ‘potenza’ usata per designare la virtù che fa pensare al contrario della potenza, alla impotenza, se pur non rassegnata) che consiste “nella lasciar essere l’altro quello che è“. Aggiungeva: “Il violento non ha impero perché toglie a coloro ai quali fa violenza il potere di donarsi. Ha impero invece chi possiede la volontà, la quale non si arrende alla violenza, ma alla mitezza”. Dunque: “Lasciare essere l’altro quello che è” è virtù sociale nel senso proprio, originario, della parola.
Norberto Bobbio in Elogio della mitezza, ed. Il Saggiatore