Dolore e Sofferenza possono anche insegnare a Vivere, se accettate come strumento di conoscenza del proprio mondo, interiore ed esteriore.
Al dolore fisico e alla sofferenza psichica la cultura attuale oppone una resistenza più o meno intelligente affidando il corpo, la mente e la psiche dell’uomo a rimedi di cui l’individuo non coglie le conseguenze, spesso drammatiche, ansioso come è di ‘non soffrire’.
Ma, mentre per il cristiano il dolore fisico e la sofferenza spirituale non sono contro la vita, perché la sua mente vi legge la volontà di Dio, il mondo classico con Sofocle (drammaturgo greco del V sec. a.C.) dice nell’ Edipo Re: “Imparare soffrendo e soffrendo insegnare”.
Il protagonista, Edipo – che inconsapevolmente ha ucciso il padre e sposato la madre – può essere visto come il modello di un uomo sofferente, che giunge ad accecarsi nella ricerca della comprensione profonda e interiore del suo soffrire. Egli sopporta i patimenti del corpo e dello spirito, va a ricercare le radici del dolore e, conseguendo consapevolezza, si prepara a morire libero, con la dignità dell’essere umano maturo.
Gli Stoici, filosofi greci del V sec. a. C, affermavano che le avversità della vita individuale fanno parte del corso naturale degli eventi umani e che bisogna non solo sopportarle con pazienza e distacco, ma utilizzarle per rafforzare il proprio animo e imparare ad accettare la propria natura mortale.
Seneca, filosofo stoico romano del I sec. d. C, nel ‘De Vita beata’ dice: “Invece di piangere e disperarti, come se la fortuna si fosse accanita solo contro di te, accetta con animo forte ciò che impone a tutti gli uomini la legge naturale. A questo impegno siamo chiamati come a un giuramento: ad accettare la nostra natura mortale e a non avere paura di soffrire, perché nella sofferenza possiamo scoprire il significato vero della vita e liberarci dal timore della morte e del dolore, dal piacere effimero e fragile, per raggiungere la vera, duratura felicità che consiste nel distacco delle passioni (che sono causa dei turbamenti psicologici) e nella imperturbabilità”.
Senza dubbio occorre tempo perché la psiche si abitui al dolore, perché essa naturalmente cerca la gioia. Il cuore (spirituale) però può aiutarci a “trovare anche nel dolore la felicità” (come dice Dostoewski nei “fratelli Karamazov”). Il dolore fisico provoca ansia, depressione, insonnia e toglie la volontà di vivere perché umilia la dignità di una persona; ma anche il dolore psico-spirituale può essere all’origine di tante forme di male di vivere.
L’atto di amore più grande verso se stessi è prendersi cura di ogni forma di dolore o renderlo sopportabile, non distraendosi e ignorando le cause o ricorrendo a cure palliative, ma perseguendo la via della conoscenza di ciò che accade dentro di noi nell’interazione con il mondo che è fuori di noi.
C’è una parola latina che esprime questa disponibilità a lenire, curare, togliere il dolore: ‘humanitas’ che possiamo impropriamente tradurre con ‘umanizzare’, intesa qui con il significato di conseguire ‘dignità umana’.
Parlare di dolore fisico è sempre parlare della conseguente sofferenza psicologica e spirituale che colpisce il malato; a curare tale sofferenza non bastano i rimedi della più sofisticata farmacologia. Più efficace è il lavoro che ognuno può fare su di sé, anche se non è malato, per sapere chi è e quale scopo ha dato alla sua vita (che non sia uno scopo occasionale!).
Gli antichi sostenevano che “solo all’uomo giusto non può capitare alcun male”, non perché egli non si ammali o non muoia, ma perché considera un male il vivere ingiustamente, non l’ammalarsi o il morire.
Uno spirito sereno, lieto, è in grado di accettare la realtà che è fatta anche di sofferenza e di dolore. Raggiunge tale serenità solo l’uomo giusto, perché ha raggiunto la saggezza, come dice Eschilo (V sec. a. C) nella tragedia ‘Agamennone’: “La Giustizia solo a chi soffre concede in cambio il sapere” (intendendo per ‘sapere’ la saggezza).
Secondo Socrate e Platone il più alto scopo che l’uomo può proporre alla sua vita è “essere giusto”. Se è giusto ha dentro di sé una divina felicità che gli permette di affrontare il dolore fisico e la sofferenza morale, grazie alla sua forza spirituale.
Questa verità valeva per Socrate e Platone, ma essa ha valore ancora oggi? Ognuno potrebbe porre a se stesso il quesito: “sono io un essere umano giusto” con ciò che ne consegue?